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Data: da 27/03/19 a 31/03/19

Orario

dal 27 al 31 marzo 2019

dal martedì al sabato - ore 21.00
domenica - ore 18.00

Ospitato in

Indirizzo

Indirizzo: Via Giacinto Carini, 78
Zona: Quartiere Gianicolense (Roma ovest)

Contatti

Descrizione

regia Pierpaolo Sepe
con Federico Antonello, Marco Celli, Paolo Faroni, Noemi Francesca, Biagio Musella Vincenzo Paolicelli, Alessandro Ienz
collaboratrice alla drammaturgia Elettra Capuano

movimenti di scena Valia La Rocca, costumi Clelia Catalano, luci Marco Ghidelli, elementi di scena Cristina Gasparrini,assistente scene Clelia Catalano

La nascita del male, il suo insinuarsi nell'animo umano ed il conseguente controllo della volontà, determina il più feroce e inammissibile conflitto che la coscienza debba sopportare. È questo l'avvio del Macbeth, è questo il campo di battaglia. Quello che avviene una volta che le forze si schierano sul campo tuttavia, stupisce. Quasi che lo stesso Shakespeare ci stesse incitando non a patteggiare per l'uno o l'altro schieramento, ma a gioire del massacro in sé, dello smembramento dei corpi, a trovare piacere nello sgorgare a fiotti del sangue. Non una sconfessione del peccato, ma un godimento di esso. Il luogo in cui si svolge questa battaglia è uno spazio vuoto, una brughiera troppo lontana da Dio perché i suoi echi possano raggiungerci. Il riparo da questo sguardo divino ci offre un'orribile scoperta: il punto cieco di Dio coincide con la nascita di un altro tipo di sguardo, quello osceno del voyeur.

Dopotutto, il punto di vista scespiriano attinge da quello della tragedia greca, dove la messa in scena di passioni che sconfinano nel male e nella violenza servono a produrre quella che veniva chiamata "catarsi" ovvero "purificazione" e che Aristotele indica come la liberazione dalle passioni tramite la visione della tragedia. Che sia proprio il voyeurismo delle passioni che il teatro ci mostra senza filtri morali a liberarcene? Shakespeare ne era conscio: in nessuna delle sue opere c'è mai giudizio (come nella tragedia greca) bensì rappresentazione della passione e di tutti i conflitti che ne derivano.
In Macbeth, però, questa rappresentazione è più feroce che altrove e il gioco forse si ribalta del tutto: e se la liberazione non esistesse realmente?
Se la liberazione fosse abbracciare la corruzione della mente e dell'animo, anziché allontanarsene, in uno slancio vitale che travolge tutto? Come se vivere le proprie passioni volesse dire aprire un gorgo infernale che risucchia ogni cosa e sul cui fondo si scopre che "La vita non è un'ombra che passa, la recita di un oscuro attore che si pavoneggia e si affanna sulla scena"; verità banale di per sé (chi non sa che si deve morire e che la vita è vana?) se non fosse che abbiamo visto Macbeth – e non solo lui – dannarsi l'anima per conseguire un fine che pareva essere più edificante.
Come se, realmente, la vita potesse essere altro e non solo quest'ombra che passa.

Tutto questo affanno e desiderio si incarna nelle streghe, che raccontano la parte profonda di questo moto interiore e che, nello spettacolo, si moltiplicano in più Macbeth e Lady Macbeth per ricordare che nessuno è esente da questa pulsione e che tutti possiamo diventare o l'uno o l'altra.
La moltiplicazione coinvolge quindi anche il pubblico: così come tutti gli attori possono tramutarsi in questi alfieri del male, così lo spettatore è costretto, dalle streghe, a chiedersi: "E Io? Non abito forse anche io la battaglia?"

Parole chiave

Data di ultima verifica: 25/03/19 15:26