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Data: 06/10/17

Descrizione

LADRO DI VOCI, Italia, 1990, 65’ e un frammento di Via Lumière angolo Méliès, backstage di Giamaica

LADRO DI VOCI Una ricognizione di Luigi Faccini. Con: i reclusi del carcere minorile di Romarecidivi e primari. Prodotto dalla RAI-Radio Televisione Italiana, attivando una convenzione tra il Ministero di Grazia e Giustizia e il Consiglio di Amministrazione dell'Azienda.

Carlo e Fabrizio di Tor Bellamonaca. A Carlo i riccioli strinati cadevano sugli occhi. Soffiava con la bocca per spostarli, quando voleva essere guardato in faccia. Fabrizio sembrava uno zingaro, occhi di velluto e un sorriso bianco che nascondevano la depressione. Aveva imparato a suonare la chitarra nel carcere minorile di Casal del Marmo. Giochi proibiti era la sua colonna sonora. Carlo aveva un padre buono, indifeso, abbandonato dalla moglie. Carlo avrebbe voluto che questo padre, per correggerlo, gli avesse fatto assaggiare qualche cazzottone. Fabrizio, dal suo, avrebbe desiderato comprensione e dolcezza. Ne aveva avuto disprezzo, calci, manate... Carlo e Fabrizio stavano per compiere diciotto anni. Decisi che sarebbero stati i protagonisti di Notte di stelle. Tossicodipendenti entrambi, avevano promesso di disintossicarsi nelle strutture di sostegno collegate al carcere dei minori. Non avvenne. Usciti da Casal del Marmo erano finiti a Regina Coeli e Rebibbia, per furto e rapina. Persi i miei protagonisti, anche se continuai a mantenere rapporti con loro e, a volte, con le famiglie. Avevo passato quattro mesi a Casal del Marmo, tenendo un laboratorio audiovisivo per i ‘primari’ e i ‘recidivi’. Ero riuscito a far scrivere un soggetto cinematografico a Fabrizio, mentre Carlo rimuginava la storia di un figlio che per difendere la madre ammazzava un padre violento. Erano svegli Carlo e Fabrizio, i più audaci, i più coscienti che l’infrazione delle leggi qualificava la loro intelligenza. Contemporaneamente si sentivano rifiutati, scacciati, perduti. Venivano da Tor Bellamonaca e fu in quel quartiere che andai per attingere alla realtà della loro provenienza e per, eventualmente, rimpiazzarli. Mi collegai con la Comunità di Capodarco, che a Tor Bellamonaca aveva aperto un presidio di ascolto e di intervento, il CIS, Centro di Integrazione Sociale. Don Franco Monterubbianesi, prete operaio fondatore di Capodarco, capì che non cercavo ‘bestie da cinema’ ma le radici della disperazione di tutti i ragazzi delle periferie. Armato di telecamera, monitor, microfoni, domande e pazienza, lavorai presso il CIS per undici mesi, nel 1990. I colloqui ai quali i ragazzi del quartiere si sottoponevano, fino a richiederli loro stessi, rivelavano abbandono, solitudine, povertà di linguaggio e di comunicazione, assenza di prospettive, mitologie consumistiche, sogni impossibili, desideri e spavento. Quello che avevo impiantato era una vera e propria terapia di ricognizione e sostegno psicologico. Che i ragazzi potessero guardarsi nel monitor mentre conversavano con me si trasformò in un’esperienza liberatoria, in molti casi catartica. Gli strumenti audiovisuali ebbero grandi meriti nel provocare e registrare i risultati che ottenni. Sulla base dell’affettività che i colloqui costruivano, io aderivo alla loro vita e mi impossessavo del loro linguaggio (brutalmente sintetico: per povertà lessicale, non per povertà emotiva). In cambio offrivo disponibilità, rimbrotti, gioco, diversità, sottolineando continuamente la necessità di acquisire linguaggi, per liberarsi dalla sudditanza in cui vivevano. Tor Bellamonaca come un marchio a fuoco impresso sulla loro pelle. Incominciai a scrivere la sceneggiatura di Notte di stelle. I perdenti, i vinti, gli ultimi! Bisogna maneggiare con cura queste parole. Si perde e si finisce in fondo alla classifica sociale per ragioni spesso decifrabilissime. Mi chiedevo: fare un film sui perdenti per costringerli a conoscere i meccanismi che li afferrano e li abbattono? O farne un’elegia malinconica, un’esortazione alla bontà? Il quadro fosco di una realtà immodificabile? Scelsi la prima strada. Il pubblico si sarebbe sentito in colpa? Complice e responsabile dei meccanismi che producono l’emarginazione? Il rischio era serio. Ma io non sostituisco mai l’illusione alla realtà. Il cinema, troppo spesso, fa il “gioco delle tre carte”. Scopre la consolazione quando ci sarebbe bisogno di disperarsi o di mandare le cose a gambe all’aria... Scelsi di mettere in scena i ragazzi di Tor Bellamonaca. Non è vero che un ragazzo preso “dalla strada”, come dice la gente, non reciti. È privo di cultura, privo di strumenti del mestiere, ma è pieno di esperienza, di linguaggi gestuali e verbali, consci e inconsci. Sa, se glielo insegni o glielo riveli, che rappresentarsi non significa mettere in scena soltanto la propria vita, ma, simbolicamente, anche quella delle persone e dell’ambiente che lo circondano. Il “ragazzo di strada” è vivo e, se guidato, sa far rivivere. Il punto, ancora una volta, sta nel non “usarlo”. Il punto sta nel fargli scoprire le relazioni che caratterizzano la realtà nella quale è immerso, nel praticare i modi della rappresentazione simbolica, dentro di sé e fuori di sé, di quella realtà. Solo con i grandissimi attori è possibile ottenere gli stessi risultati, ma le strade da percorrere sono diversissime...

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